Black Dog - Parte 2

Adorava il particolare profumo che rilasciavano le vecchie librerie, le davano la sensazione d’essere in un'altra dimensione dove regnavano carta, inchiostro e legno. Gli uffici dei professori erano ospitati in un vecchio palazzo dell’ottocento e i muri erano completamente coperti da enormi librerie in legno scuro.
Il profumo e la calda luce dorata però non bastavano a distrarla. Con le dita tormentava le pieghe della gonna in attesa che la porta di fronte a lei si aprisse e il professore le comunicasse il suo destino. Se l’avesse espulsa dal corso avrebbe dovuto attendere l’esame di settembre, condannandosi a un’estate di poco mare e decisamente troppo studio. Era fortemente tentata di ascoltare la musica nel frattempo, ma qualcosa le diceva che farsi trovare con addosso le cuffie non sarebbe stata una buona idea.

Finalmente, con un leggero cigolio la porta si aprì lasciando uscire una sorridente studentessa dai capelli rossi che la salutò velocemente prima di sparire tra le librerie. Sistemò la gonna, prese un profondo respiro e spinse la porta rassegnata.

Il professore l’aspettava seduto dietro una grossa scrivania in legno scuro e appena la vide la salutò con un “Buon pomeriggio signorina” che non prometteva niente di buono. Ricambiò quasi sussurrando e si sedette dove lui le indicò.
Appena si sedette iniziò a rimproverarla, in breve la sua voce calda e autoritaria le fece abbassare gli occhi. Le stava parlando come se stesse parlando ad una bambina e lei non poté fare a meno di provare una strana sensazione. Il volto iniziò ad arrossire e il cuore a battere più velocemente, le mani ripresero a tormentare l’orlo della gonna.

“Quindi mi dica signorina, cosa pensa che dovrei fare?”

La domanda la colse alla sprovvista e involontariamente si trovò a mormorare scuse senza trovare il coraggio d’alzare gli occhi. Lo sentì alzarsi e girare intorno alla scrivania, deglutì spaventata convinta che stesse per cacciarla. Quando sentì la sua mano posarsi sulla spalla sobbalzò e sentì gli occhi riempirsi di lacrime.

“Signorina si calmi, non è il caso di farsi prendere dal panico, ora su alzi lo sguardo”

Ubbidiente alzò lo sguardo verso di lui, la luce calda della stanza evidenziava gli spigoli del volto e le linee precise del pizzetto, s’immaginò che sensazione dessero quei peli cortissimi sulle labbra o sulla fronte e un accenno di sorriso le decorò il volto.

“Ecco brava, adesso torni a casa...e ringrazi di non essere mia…”

Vide chiaramente un lampo di terrore attraversare il viso del professore, mentre le labbra si contraevano nel tentativo di ricacciare in gola quelle parole. “…essere mia…” le parole le erano rimaste impresse, conosceva quell’espressione, ma di certo non l’associava al mondo accademico, o meglio non a quello tradizionale. L’ombra di un sospetto iniziò a addensarglisi nella testa.

“Professore non voglio tornare a casa senza il suo perdono…anche se non sono sua”

mentre ripeteva le ultime parole alzò gli occhi verso di lui e utilizzò quella particolare espressione che pochissimi conoscevano, consapevole di essere sul filo un rasoio sottilissimo.

Lo vide allargare le spalle e irrigidirsi, le labbra farsi sottili e il volto più scuro, le dita che prima le poggiavano delicatamente sulla spalla le afferrarono il mento obbligandola a fissarlo negli occhi. Trattenne involontariamente quando si rese conto di conoscere quello sguardo e si sentì presa in trappola.

“se fossi mia ora ti alzeresti e ubbidiente piegheresti il busto sulla scrivania…ma non lo sei quindi puoi andare a casa”

Una familiare sensazione la spinse ad alzarsi, sistemare con cura le pieghe della gonna e poggiare il busto sul legno lucido della scrivania, era caldo e profumava di cera e ciliegio, chiuse gli occhi e aspettò.

Rabbrividì quando con una mano le scostò i capelli dal collo, così da poterla vedere in volto, la medesima mano percorse la schiena sfiorando appena la camicietta e sparì prima di arrivare alla gonna.

“E’ la tua ultima possibilità, sei sicura di volerlo?”

Un “sì” quasi sussurrato le attraverso le labbra.

Con mani rapide ed esperte le risvoltò la gonna sui fianchi e abbassò le mutandine strappandole un piccolo verso sorpreso. I colpi non arrivarono subito, ma lo sentì chinarsi su di lei e poggiare qualcosa vicino al suo volto.

“Se non sbaglio qualche ora fa stavi cantando Black Dog, bene la tua punizione durerà esattamente quanto l’album che la contiene”

Con le prime note proprio di black dog iniziarono ad arrivare i primi colpi, erano lenti e pesanti. La sua mano rigida cadeva alternativamente prima su una natica e poi sull’altra e ad ogni colpo sentiva il corpo scorrere lungo il legno lucido. Mentre la colpiva rimaneva in silenzio e l’altra sua mano le bloccava il centro della schiena.
La musica copriva il rumore delle sue mani e già dopo pochi colpi le sembrò che si fossero sincronizzati ad essa facendo si che il suo corpo iniziasse ad assecondarli e quasi ad accoglierli. Come se il suo stesso corpo decidesse di partecipare attivamente alla canzone, lasciando che la musica lo attraversasse e diventasse parte di esso.

Alle prime note di “The Battle of Evermore” il bruciore cominciò a farsi di difficile sopportazione e tra un colpo e l’altro si ritrovò a cercare di calcolare la durata totale dell’album. Ogni sforzo era però vanificato dalle schegge di dolore che le percorrevano la spina dorsale e dalle lacrime che ormai le scorrevano copiose sul volto.

“…To be a rock and not to roll…”

Le parole di Plant arrivavano ormai ovattate, mentre si sforzava di trattenere i gemiti stringendo i denti. Voleva chiedere pietà, ma allo stesso tempo voleva mostrarsi forte e risoluta. Ma i colpi continuavano a cadere con forza invariata e il bruciore si era fatto ormai insopportabile.

“When all are one and one is all
To be a rock and not to roll.
And she's buying a stairway to heaven.”

Insieme all’ultima nota cessarono anche i colpi, ormai singhiozzante non se ne rese conto sino a che non sentì il suo profumo molto vicino al visto.

“Domani alla stessa ora nel mio ufficio, così potremmo discutere del lato b del disco. Ora è tardi e devo andare, chiudi la porta dietro di te quando esci”

Detto ciò uscì chiudendo la porta dietro di lui.

Attese un paio di minuti prima di alzarsi dalla scrivania, il respiro rotto dai singhiozzi e il fondo schiena decisamente accaldato. Mentre si sistemava la camicietta notò il suo riflesso nella finestra: I capelli le scendevano sulle spalle in una scomposta cascata nera e il trucco le era colato sul viso disegnando uno strano disegno, come se un pittore avesse tracciato con l’acquerello delle sensuali onde nere. Gli occhiali erano macchiati dalle lacrime e leggermente storti, per uno strano gioco di luci mettevano in risalto gli occhi ancora umidi.
Con un sorriso si scattò un selfie, non vedeva l’ora di sentire “Misty Mountain Hop”…

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